Con la sentenza n. 134 del 15 luglio 2025, la Corte costituzionale ha affrontato un tema cruciale per il governo della transizione energetica: la illegittimità di un divieto assoluto alla localizzazione di impianti a fonti rinnovabili, introdotto con legge regionale.
Tale pronuncia, per contenuti e approccio sistematico, si pone in continuità e conferma l’orientamento tracciato dalla recente sentenza del TAR Lazio – Roma, Sez. III, n. 10095 del 26 maggio 2025, che ha accolto il ricorso promosso dallo Studio contro l’archiviazione di un progetto fotovoltaico, fondato sulla sola individuazione dell’area come non idonea (per un approfondimento sul punto si rinvia alla precedente pubblicazione del 4 giugno 2025 consultabile QUI)
In quel caso, il TAR aveva infatti chiarito che la qualificazione di un’area come “non idonea”, ai sensi della legge regionale Sardegna n. 20/2024 e del D.M. 21 giugno 2024, non può produrre effetti interdittivi automatici, ma solo richiedere un onere istruttorio rafforzato. Tale principio, affermato dal TAR Lazio, in accoglimento delle tesi prospettate dal nostro Studio, ha trovato ora piena conferma anche nella giurisprudenza costituzionale.
La nuova cornice normativa: d.lgs. 199/2021 e D.M. 21 giugno 2024. L’autonomia regionale incontra i suoi limiti: l’individuazione legislativa non equivale a un divieto.
La sentenza n. 134/2025 della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 14 della legge regionale Calabria n. 36/2024, che vietava in modo assoluto la realizzazione di impianti a biomassa di potenza superiore a 10 MW all’interno di parchi regionali e nazionali, anche con riferimento a impianti già autorizzati e operativi. L’oggetto del giudizio era, dunque, un divieto generalizzato e retroattivo, privo di qualunque bilanciamento procedurale e non accompagnato da un’istruttoria individualizzata.
La decisione della Consulta, come in precedenza quella del TAR Lazio, si misura con il nuovo quadro normativo definito dal d.lgs. n. 199/2021 e D.M. 21 giugno 2024, che hanno innovato profondamente la materia, attribuendo alle Regioni la possibilità di individuare con legge non solo le aree idonee, ma anche quelle non idonee all’installazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili.
Afferma, infatti, la Corte “La valutazione della presente censura governativa della legge calabrese richiede ora a questa Corte di affrontare, per la prima volta ex professo – data la sua pertinenza ratione temporis –, la portata del recente d.m. 21 giugno 2024, che, appunto attuando l’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 199 del 2021, stabilisce i nuovi principi e criteri omogenei per l’individuazione da parte delle regioni delle superfici e delle aree idonee e non idonee all’installazione degli impianti FER”.
Tale facoltà, tuttavia, prosegue la Corte, in linea con l’orientamento del giudice amministrativo, va esercitata nel rispetto di un principio fondamentale: l’individuazione di un’area come non idonea non può equivalere a un divieto assoluto, bensì solo a un vincolo rafforzato, da valutare caso per caso nell’ambito del procedimento autorizzatorio (“un’attenta lettura del suddetto decreto ministeriale fa emergere che la inidoneità dell’area, pur se dichiarata con legge regionale, non si può tradurre in un divieto assoluto stabilito a priori, ma equivale a indicare un’area in cui l’installazione dell’impianto può essere egualmente autorizzata ancorché sulla base di una idonea istruttoria e di una motivazione rafforzata”).
È proprio questo il passaggio centrale della motivazione contenuta nel punto 7.2 della sentenza, dove la Corte chiarisce che anche dopo l’individuazione legislativa di aree non idonee, la possibilità di autorizzare specifici progetti non è esclusa. La legge regionale può identificare contesti in cui l’installazione risulti normalmente incompatibile, ma la decisione definitiva sull’ammissibilità dell’impianto deve comunque avvenire all’esito di una istruttoria tecnica, che può – se adeguatamente motivata – condurre anche a un’autorizzazione. Ne deriva che l’inidoneità non assume mai, nemmeno oggi, il significato di un divieto “preliminare” o “assoluto”.
Secondo la Corte, questo assetto è funzionale a garantire, da un lato, la valorizzazione dell’autonomia legislativa regionale e, dall’altro, a evitare l’abuso del potere legislativo per finalità di mero blocco localistico, in contrasto con l’interesse nazionale allo sviluppo delle fonti rinnovabili. In tal senso, la sentenza evidenzia come l’attribuzione alle Regioni del potere di legiferare sulle aree non idonee non possa essere utilizzata per introdurre divieti aprioristici in violazione dei principi fondamentali statali in materia di energia.
La coincidenza argomentativa tra la sentenza della Corte costituzionale e quella del TAR Lazio è evidente. Entrambe respingono una lettura formalistica e restrittiva della normativa in materia di FER e riaffermano la centralità del procedimento autorizzativo quale sede del bilanciamento tra interessi pubblici rilevanti, tra cui la tutela ambientale e la promozione della transizione energetica. Il TAR Lazio, come detto, aveva già riconosciuto, infatti, che il D.M. 21 giugno 2024, nella parte in cui stabilisce che la presenza in area non idonea comporti il venir meno dell’interesse pubblico alla realizzazione dell’impianto (art. 7, comma 2, lett. c), si pone in contrasto con il d.lgs. 199/2021 e con i principi della legge 241/1990. In particolare, viola l’art. 20, co. 1, lett. c) del d.lgs. 199, che attribuisce valore solo orientativo – non vincolante – all’individuazione di aree non idonee e aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della legge regionale Sardegna n. 20/2024 proprio su tale assetto.
Violazione degli articoli 3 e 41 Cost.: il legittimo affidamento come limite all’intervento normativo
Nella parte finale della sentenza n. 134/2025, la Corte ha inoltre esteso la declaratoria di illegittimità alla norma regionale calabrese che imponeva anche agli impianti esistenti la riduzione della potenza entro sei mesi, pena la decadenza dell’autorizzazione.
La Corte ha sottolineato che l’iniziativa economica privata può essere limitata in nome dell’ambiente, come previsto dall’art. 41 Cost. riformato, ma tali limiti devono essere proporzionati e ragionevoli. Una disposizione che impone la perdita dell’autorizzazione in tempi così ristretti, incidendo su un unico impianto già operativo (la centrale del Mercure), si configura come norma-provvedimento e, in quanto tale, è soggetta a uno scrutinio particolarmente rigoroso. Secondo la Corte, in questo caso, tale scrutinio non è superato: la norma compromette in modo ingiustificato sia la libertà economica dell’operatore, sia la posizione dei lavoratori coinvolti.
Un indirizzo giurisprudenziale che si consolida: principi condivisi
Il quadro che emerge dalle due decisioni è quindi chiaro e coerente. La legge può individuare aree non idonee, ma tale individuazione non produce effetti escludenti automatici: permane la necessità di valutare caso per caso l’ammissibilità dell’intervento, mediante un’istruttoria tecnica e una motivazione adeguata. La qualificazione legislativa di inidoneità non equivale, dunque, a un divieto.
Siamo fieri di aver contribuito a un risultato che conferma la solidità dell’approccio giuridico adottato, fondato su rigore tecnico, attenzione sistematica e sulla difesa del principio di legalità nella transizione ecologica.
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Autori di questa nota sono l’avvocato Massimo Colicchia e il dott. Alessandro Castellini.
Per maggiori informazioni o chiarimenti sui temi trattati in questo articolo si prega contattare l’avv. Massimo Colicchia
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